Prescrizione e ricorso per cassazione inammissibile – questione oramai incontroversa
Orientamento consolidato. Giudicato formale e sostanziale. Il giudicato sostanziale impedisce la possibilità di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata (prescrizione) sia di rilevarla di ufficio.
Come noto le Sezioni unite hanno enunciato il principio in base al quale l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (nel caso di specie, si trattava proprio della prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso) (Sez. un., 22 novembre 2000, De Luca).
Il problema attiene ai rapporti tra cause di inammissibilità dell’impugnazione e applicazione delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p.
Chiamate per la prima volta a dirimere il contrasto incentrato sulla permanenza, nel sistema del nuovo codice, di tale distinzione e, in caso di esito positivo di un simile scrutinio, ad individuare la linea di discrimine tra inammissibilità originaria ed inammissibilità sopravvenuta, le sezioni unite (Sez. un., 11 novembre 1994, Cresci) si pronunciarono nel senso della persistente attualità di un modello informato alla distinzione sopra rammentata. Vennero così qualificate originarie tutte le cause di inammissibilità previste dall’art. 591 c.p.p. (con eccezione della rinuncia all’impugnazione); vennero qualificate cause di inammissibilità sopravvenute le sole cause di inammissibilità previste, esclusivamente per il ricorso per cassazione, dall’art. 606, comma 3, dello stesso codice, perché esse comportano “un esame, a volte anche approfondito, degli atti processuali; con la conseguenza che, nel caso in cui questo esame faccia emergere una causa di non punibilità non ci sono ragioni logiche per negare operatività alla norma dell’art. 129 c.p.p.”.
In seguito le Sezioni unite, pur riaffermando l’immanenza della dicotomia cause di inammissibilità originarie – cause di inammissibilità sopravvenute, avevano cura di circoscrivere ulteriormente il numero delle seconde, con l’enunciare il principio secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione derivante dalla manifesta infondatezza dei motivi non impedisce che vengano rilevate e dichiarate, ai sensi dell’art. 129, le cause di non punibilità; precisando che la dichiarazione delle cause di non punibilità resta, invece, preclusa dall’inammissibilità derivante dall’enunciazione nell’atto di gravame di motivi non consentiti e dalla denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello, trattandosi di ipotesi di inammissibilità originaria le quali non consentono quella delibazione sulla fondatezza della censura che costituisce peculiarità singolare della dichiarazione di inammissibilità per infondatezza manifesta dei motivi di impugnazione (Sez. un., 30 giugno 1999, Piepoli).
Con riferimento, poi, alle cause di inammissibilità previste specificamente per il ricorso per cassazione dall’art. 606, comma 3, la sentenza distingue tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute così superando gli approdi interpretativi cui era pervenuta la precedente decisione delle Sezioni unite. Vanno considerate cause di inammissibilità originarie del ricorso i motivi non consentiti perché l’impugnazione – in base ad un esame ictu oculi – proposta per motivi non inquadrabili in nessuna delle categorie descritte nel comma 1, si caratterizza per il palese difetto di uno specifico requisito di base che vale a qualificare un atto come ricorso per cassazione. Ma appartiene alla medesima categoria anche il ricorso che denunci violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello, di per sé inidoneo a scalfire il giudicato già formatosi.
Le linee ermeneutiche tracciate dalle decisioni delle Sezioni unite si riflettono sul rilievo della prescrizione del reato nel frattempo sopravvenuta. Conseguente – pure se la relativa ratio decidendi non è perfettamente sovrapponibile – diviene in tale contesto l’ulteriore principio di diritto secondo cui il ricorso per cassazione proposto esclusivamente per far valere la prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata e prima della proposizione dell’atto di impugnazione, se privo di qualsiasi doglianza relativa alla sentenza medesima, viola il criterio enunciato nell’art. 581, lett. a), ed esula dai motivi in relazione ai quali può essere proposto il ricorso, a norma dell’art. 606, ed è, pertanto, inammissibile (Sez. un., 27 giugno 2001, Cavalera). Secondo un canone già ricavabile da una precedente decisione che, chiamata a comporre il contrasto giurisprudenziale circa la possibilità di dichiarare estinto il reato per prescrizione quando i motivi di impugnazione non abbiano ad oggetto l’accertata sussistenza del reato, ma riguardino soltanto la pena, nel risolvere positivamente il conflitto interpretativo sul rilievo che il giudicato si forma sul capo e non sul punto della decisione, ha comunque subordinato l’applicabilità della causa estintiva, in attuazione del precetto di cui all’art. 609 commi 1 e 2, c.p.p., alla mancata formazione del giudicato sui singoli capi della sentenza e, dunque, all’ammissibilità dell’atto di impugnazione (Sez. un., 19 gennaio 2000, Tuzzolino). Tanto da evocare un profilo della tematica sul versante sia della deducibilità sia della rilevabilità di ufficio della causa estintiva maturata dopo la sentenza di appello e prima della scadenza del termine per ricorrere in cassazione in presenza di un ricorso affetto da inammissibilità “originaria”.
Tutte le considerazioni che precedono hanno da ultimo condotto le Sezioni unite alla conclusione che l’intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591, comma 1, con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione; art. 606, comma 3), precluda ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla di ufficio.
L’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione viene a tradursi in una vera e propria absolutio ab instantia, derivante da precise sequenze procedimentali, che siano in grado di assegnare alle cause estintive già maturate una loro effettività sul piano giuridico, divenendo altrimenti fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale.
Fermo restando che l'”eccezionale possibilità di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del giudicato formale (v., soprattutto, l’art. 673 c.p.p.) parrebbe … comportare che a tanto possa provvedere il giudice dell’impugnazione inammissibile – indipendentemente dalla procedura concretamente seguita – a meno che il decorso del termine, derivante dalla mancata proposizione del gravame (arg. ex art. 648, comma 2, c.p.p.) abbia già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale (cfr. Sez. un., 22 novembre 2000, De Luca). L’unica ipotesi di cognizione da parte del giudice dell’impugnazione inammissibile rimane allora quella relativa all’accertamento dell’abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto della imputazione e desumibile dall’eccezionale possibilità di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del giudicato formale; così come “nell’ipotesi in cui debba essere dichiarata l’estinzione del reato a norma dell’art. 150 c.p.”, sempre salvo il caso di proposizione tardiva del gravame (arg. ex art. 648, comma 2, c.p.p.; così, ancora, Sez. un., 22 novembre 2000, De Luca). Una precisazione – senza dubbio dettata da esigenze di tipo prasseologico, ma da ricollegare direttamente al principio della “ragionevole durata del processo”, di cui all’art. 111, secondo comma, della Costituzione – solo apparentemente formulata obiter perché delinea un sistema che, mentre, per un verso, consente all’impugnazione inammissibile di confrontarsi con cause di non punibilità rigorosamente delimitate (come la remissione della querela, secondo un modello del tutto peculiare rispetto alle altre cause di non punibilità), per un altro verso, ribadisce la natura dirimente della inammissibilità contrassegnata dalla inosservanza del termine per impugnare destinata comunque a prevalere, non soltanto sulle ipotesi di abolitio criminis e di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma oggetto dell’imputazione, ma anche – ovviamente – sulle altre ipotesi di inammissibilità del ricorso per cassazione contemplate sia dall’art. 591 sia dall’art. 606, comma 3, c.p.p. (cfr. Sez. un., 25 febbraio 2004, Chiasserini).
Conclusivamente: “L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità che, nel giudizio di legittimità, possa essere fatta valere o rilevata d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello ma non dedotta dalla parte nè rilevata dal giudice” (Cassazione penale sez. un. 22 marzo 2005, n. 23428 che riepiloga tutti i precedenti di legittimità sopra trascritti).
A titolo esemplificativo reputo utile allegare una sentenza della Suprema Corte che, previa affermazione che il ricorso non è manifestamente infondato, e dunque “non inidoneo ad instaurare il rapporto d’impugnazione” quale “condizione che preclude – secondo il consolidato orientamento di questa Corte la possibilità di far valere una causa di non punibilità ovvero di rilevarla d’ufficio” annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.
La sentenza è stata segnalata dall’Avv. Filippo Poggi del Foro di Forlì con la corretta annotazione che segue: “La sentenza allegata è un esempio perfetto della discrezionalità assoluta che regola (si fa per dire) il riconoscimento in Cassazione della prescrizione maturata dopo il giudizio di appello in cui la sorte dell’imputato è determinata dal giudizio di infondatezza del ricorso (la prescrizione opera) ovvero di manifesta infondatezza del ricorso (la prescrizione non opera in quanto il ricorso è inammissibile). Nel caso in esame si trattava della detenzione abusiva di un’arma, un reato dal quale normalmente è impossibile difendersi, tuttavia il giudice di legittimità talvolta non è insensibile a ragioni equitative e di giustizia del caso concreto (il gup a suo tempo aveva prosciolto per mancanza di dolo, decisione impugnata dal PG ed immediatamente riformata dalla Corte bolognese), di qui immagino la decisione di considerare il ricorso non manifestamente infondato e con una motivazione molto sobria (quasi pudica) di dichiarare la prescrizione del reato. Il giudizio è durato quasi 16 anni” ( Cass. I sez. pen. 9650_12).
LMC